Il genio eclettico di Agatino Daidone

Termini Imerese (PA) – Agatino Daidone da Calascibetta fu un eclettico personaggio che visse a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. La sua personalità geniale e versatile lo portò a distinguersi in diversi campi della cultura. Fu matematico, fisico, astronomo, pittore-restauratore, scenografo, cartografo e Regio Architetto. Nacque a Calascibetta “Urbs Victoriosa et Fidelissima”, nel cuore della Sicilia centrale, il 5 febbraio del 1662 da Antonio e da Barbara Callarami, al battesimo gli furono imposti i nomi di Agatino, Pietro.

Egli fu anche un profondo studioso di Ottica e realizzò a scopo dimostrativo e didattico, un modello dell’occhio umano nel quale era possibile evidenziare l’origine dei principali difetti visivi, che fece molto scalpore in Sicilia e all’estero.

Nel campo dell’idrostatica realizzò una bilancia di elevatissima precisione che chiamò, “idrolibra” che permetteva di riconoscere in una massa di oro in lega, delle dimensioni non superiore a quelle di un doblone, la presenza di un altro metallo sino a un minimo di quattro parti su cento.

Condensò i risultati di tale ricerca nella sua opera dal titolo “Archimede Reintegrato”, edita a Palermo nella regia Stamperia d’Antonio Epiro, nel 1720.

In quel torno di tempo, l’idrolibra del Daidone fece il giro delle Corti europee destando in ogni luogo notevole interesse e stupore, dando al suo inventore una fama a livello internazionale. Nel campo della cartografia regionale attorno agli anni 1712-1718, disegnò e pubblicò la seconda carta topografica dell’isola di Sicilia, apportando notevoli miglioramenti a quella edita da Sipione Basta nel 1702.

La carta di Daidone ebbe un grandissimo successo tanto da essere stata stampata più volte nel corso del XVIII secolo.

Agatino Daidone, fu l’architetto regio, responsabile dei lavori pubblici realizzati in Sicilia a quel tempo e la sua opera più importante è, senza dubbio, il ponte sul fiume San Leonardo. E’ noto, inoltre, per aver portato avanti i lavori della villa del principe Gravina di Palagonia (comunemente nota come la “villa dei mostri” nella borgata della Bagaria, oggi divenuta la cittadina di Bagheria in provincia di Palermo) già iniziati dal progettista, Tommaso Maria Napoli, Agatino si spense a Palermo il 10 gennaio del 1724, compianto da tutti e l’orazione funebre (1) fu composta e recitata il 4 giugno dello stesso anno, dall’erudito Gaetano Giardina (1693-1731).

(1) Gaetano Giardina Orazione in morte del nostro accademico Agatino Daidone. Recitata nell’Accademia dei Geniali – Palermo 4 giugno 1724.

«Fra le più giuste e più onorevoli usanze che la nostra Accademia ha mai saputo con perfetta prudenza, e maggior suo vanto introdurre, quella senz’alcun dubbio è stata di celebrare con ben dovute lodi il nome, e col nome insieme la gloriosa memoria di quegli insigni Accademici, che sono già di singolar fama vissuti, e che per lo stabile universal decreto, di cui niun di noi sarà esente, ànno da questa felicemente volato all’eterna veritiera magione delle più sane dottrine, delle virtù più splendenti, delle scienze più chiare; ed invero non senza misteriosa rilevante cagione, ma per farsi ben concepire l’idea della presenza non men che dell’era di future di quelle doti così eccelse, e di quei preggi cotanto subblimi, dei quali era adorno ciascun defunto Accademico, acciochè fosse chiaro il giusto cordoglio, è il verace motivo della nostra Genial Radunanza di compiagnerne la perdita, e non passarla sotto un profondo, e men lodevol silenzio, come Anassagora quella del suo morto figliuolo, contentandosi sol di riflettere com’egli di sovente diceva sciebam me mortalem genuisse (Dion. Chrisostom, Orat. 35), ma facendone tutta la dimostranza, che la virtù, che il grado, e che le ottime qualitadi richieggono, siccome suggerì la ragione alla gran mente d’Alessandro il macedone, il quale per la venerazion che portava all’eccellenza del già morto Pindaro, e per la riverente memoria, che mantenea del medesimo, facendo bruciare la città di Tebbe, null’affatto curando ogni altro più superbo edificio, la casa ragguardò solamente di quel famoso Poeta, facendovi scriver di sopra per avvertirlo ai soldati, che stavan oramai sul punto di consegnare alle fiamme divoratrici quella misera soggiogata città Pindari musici domus ne crematis (Dion. Chrisostom, Orat. 2) tutto questo io l’approvo, ma che io debba promulgar quest’oggi in questa sì fiorita addolorata Adunanza chi fosse stato il ragguardevole nostro defunto Agatino Daidone, e di qual preggi egli era ricolmo, approvare non posso, mentre che niente dirò di lui che di nuovo, e inaspettato vi giunga per essere state le opere sue, le sue dottrine, le ammirabili singolari sue doti a tutti ben chiare, a tutti ben conosciute, sicché di esso in un picciol periodo dir brevemente potrei che egli era qual Noi tutti sappiamo, siccome Democrito richiesto che cosa era l’Uomo rispose quod omnes scimus.

Non sofferendo però questa mia carica una tal brevità, dirò di lui non quanto certamente dovrei, ma quanto potrà sinceramente discoprire il mio affetto, quanto potrà la mia lingua, sebben dal gran cordoglio sorpresa, mostrandovi, non dico già una perfetta meravigliosa immagine, ma di quello, che egli era in confuso disegno, maldistinto un abbozzo.

Questa sì bella fortunata Sicilia dal supremo datore delle vere scienze sempremai benignamente guardata, in ogni tempo ha ben’ella nudridi Uomini sempre celebri in tutte le sue parti, e principalmente dei Matematici, quindi è che trecento sei anni prima di Cristo ebbe Gela il suo Euclide, e diciassett’anni dopo ebber le Siracuse Archimede; Maurolij nacque in Messina della Redenzione l’anno mille quattrocento novanta quattro, ed in Palermo al mille cinquecento sessanta sei il nobilissimo Carlo Maria Ventimiglia, nella città di Ragusa, nel millecinquecento novanta sette nacque Giovan Batista Odierna, e per fin dopo a questi, ed ai moltissimi altri, che sarebbe il numerarli ben lungo, nella città di Calascibetta il quinto giorno di Febbraio del mille seicento settanta due, fu il glorioso natale di sempiterna memoria del nostro Agatino Daidone, chiarissimo splendor della Patria, preggio di questa città, lume inestinguibile di questo Regno, e gloria alfine maggiore di questa nostr’Accademia: fin dalla più verde età diedesi all’applicazione più serie, ed alle speculazioni più profonde della meccanica, e da lì a non molto di proposito diessi all’acquisto dell’Algebra, e della Pittura, indi a quello dell’universale Matematica.

Egli è pur vero, e ben lo sa tutto il Mondo, che in questo così arduo impegno divenn’ Euclide a maraviglia Famoso, ma sotto la disciplina di Tolomeo figlio di Lagide; riuscì portentoso Archimede, ammaestrato però da Canone Samio; si fe’ grande Dicearco sotto la scorta di Aristotele, e di Curito; ma il nostro Daidone, oh miracol’omai incredibile d’ingegno, oh forza comprensibile appena di veemente straordinaria inchinazione, sappial’ancor tutto il mondo, giunse al più subblime di sì grande, di sì difficil scienza, e cotanto degno riuscì d’immortal rimembranza (…) a fatigha più prodigiosa, a stuppenda, egli che maippiù né da Noi forse d’avvenir s’udirà, senza sollievo alcun di maestro, che l’aveva punto guidato, ma egli ad un sol tempo fu discepolo insieme, e precettor di se stesso: corse dappertutto fra brieve così ampio, così glorioso la fama della sua perizia, che non mancaron città, che avide di godere qualche parte di bello del suo elevato industrioso intelletto così nei pubblici, come nei privati edifizi, non lo chiamarono, e dov’egli andava, sempre a guisa degli antichi filosofi ansiosi di propalare i dogmi delle loro dottrine, dava le regole, ed ammaestramenti dell’architettura, e dell’ottica, non trascurando giammai lo delinearsi in pianta ciaschedun luogo dov’egli nel viaggiar soffermavasi, o di proposito si tratteneva giusta il memorabil costume del suo caro celebrato Archimede.

In un’istudio indefesso, e in altr’opere di perfetta meccanica tutto il tempo mirabilmente impiegollo, sempre però colla sana laudabilissima idea che ànno avuto i più saggi non così per se medesimo, quanto per giovare ad ognialtro, e per ciò compose un nuovo trattato di prospettiva, ed un general discorso della Fabbrica, ed uso della sfera armillare, e sua pianta con molte operazioni, ch’egli medesimo nuovamente rinvenne: collegò insieme e colla perspicacia dei suo ingegno, e con l’attitudine della sua mano tutti quei molti, e principali strumenti, che alla matematica necessitano, e che un sol pugnal figuravano. Ne debba farsene men degna rammemoranza della picciola sì, ma ‘ngegnosa macchina dell’occhio artifiziale, in cui, il natural perfettamente imitando vi si scopron le più vere cagioni d’onde procedano tutt’i difetti, a’ quali la nostra vista soggiace; perlocchè sembrarebbe per lui quell’elogio, che Arrigo Vestenio a quel celebre Giovanbatista Verte Veneziano tessé, dichiarando che per l’occhio artifiziale fatto da sì gran Notomista non poteasi Non maxime existimari, et venerari ingenium, et opus huius artificis, et inventoris, qui oculum ad tantam perfectionem produxit, ut nihil propter animam ei desit, in que nulla re alla díversus set ab oculo naturali (Gemma, Idea dell’Italia Letterata, Cap. 406, artic. 1. n. 6).

Eppure tante, e sì belle opere, che ben potea con un grande, ed un commune applauso per mezzo delle stampe farne partecipe la letteraria Repubblica non volle, stimando sempre, com’è costume de’ dotti, o di puoco, o di niun valore le sue fatighe, avendo quasi per propria, e naturale sua frase lo non so altro, sennon di avere nell’animo il sol disio di sapere, sentimento invero niente affatto dissimile a quello del gran Pittagora il Samio, qual mai non volle sapiente chiamarsi, ma solamente filosofo, cioè soltanto, che di saper disioso: in si fatta maniera proseguì finché giunse all’età di trentasei anni, allorchè alcuni probblemi aritmetici di Vincenzio Nocilla adeguatamente con brevità maestra sciogliendo, died’egli la prima volta in istampa il saggio del suo mirabil talento, e in un colle risposte pubblicò sei nuov’altri probblemi, tra’ quali due erano adattati a’ cinque termini della pratica prospettiva.

Ma siccom’ei la virtude grandemente apprezzava, così godendo, che fosse apprezzato dagli altri mandò fuori nel mille settecento quattordici per commodo de’ principianti con quel zelo, che avea veramente eroico di promulgar quant’era d’uopo all’istruzione della gioventude un brieve ristretto de’ cinque ordini dell’architettura secondo le regole di lacopo Barozzi da Vignola, Andrea Palladio, e Vincenzio Scamozzi, dove conteneasi il più facile modo di piantar la sfer’armillare nel piano orizontale, e lo scioglimento di varie quistioni astronomiche.

Or se questa nostr’Accademia della morte di ciascun letterato sebben non ascritto al catalogo nostro, ma riguardo a quel che perde la Repubblica de’ dotti suol maisempre attristarsi, potrà ogniuno riflettere quanto a lei sensibile maggiormente riesca la perdita di si celebre, di sì grande di Uomo così prodigioso il di cui nome immortale nel catalogo de’ nostri Accademici, anziché di que’, ch’esser vollero i primi, di caratter suo proprio registrato veggiamo.

Ma lo rammarico tantoppiù ragionevolmente s’innoltra quanto più la riflessione si avanza, ch’egli non volle soltanto esser’uno de’ primi alla fondazione dell’Accademia, ma come Voi ben sapete, de’ primi ancora ad impegnarsi nel procurarle vantaggio, e decoro, come in effetto le opere e le sue fatighe più prodigiose, e stupende, egli rassembra che l’avesse voluto in quel tempo mostrare, in cui e l’Accademia, ed egli insieme men godettero l’una della gloria di averlo, l’altro per esservi annoverato. Qui perciò a me fa di mestieri di riferire, sennon per intiero, gli argomenti almeno delle sue letterarie fatighe frallo spazio di cinque anni infra di noi recitate.

Elle non furon altro, che tre, e quella fu la prima di esse, per la quale impugnando l’oppinion di Odierna, e riggettando la bilancia del Galileo, diede a Noi con istraordinario stupore evidentemente a vedere la verità del mezzo, con cui il celebre ormai divino Archimede discoprì la fraude nella corona di lerone, e ce lo diede con isperienza a conoscere per via d’un istrumento invenzion del suo alto luminosissimo ingegno, qual da lui colle regole più rigorose, e più esatte dell’idrostatica fabbricato, Idrolibra chiamollo, valendosene per rinvenir coll’agevolezza più possibile la falsità delle dobble, e la novantesima e sesta parte della lega, che vi fosse in una mole d’oro finissima di peso eguale a un dobblone.

L’applauso che n’ebbe dopo di averla recitata li quattro di Giugno dell’anno mille settecento diecinove, fu grande, ma divenne maggiore poi, che la diede alle stampe nel mille settecento venti sotto la protezione del Barone di Schemmetteau Maggiore general di battaglia negli esserciti cesarei, a tal che, giugnendone la notizia in Vienna al Serenissimo Eugenio di Savoia, richiedendolo perché invaghitosene, capitò dall’Autore istesso il discorso non solo, ma l’istrumento ancora, e con esso un iscritto metodo per più speditamente adoperarsi; riuscì di tanta inesplicabil soddisfazione a questo Principe il nuovo, e nobilissimo ritrovato, che parvegli cosa giusa ad universal benefizio, far tradurre quel metodo alla tedesca dalla italiana favella; ma pria della traduzione farlo da’ primi grand’Uomini della Germania disaminare gli piacque, e ricavatone i maggiori elogi, lo mandò in Inghilterra alla censura dell’Ammiraglio Milord Forbeis, da cui non solamente approvato, ma accompagnato ancora da mille sincerissimi encomj la rimandò in Vienna, dove fu stampato in tedesco.

Gli effetti poi, che ne’ tedeschi produsse, io non ho pensato di potersi in miglior forma spiegare, se non le parole istesse ridire, colle quali da Vienna fu il nostro Daidone di tutto ciò assicurato dal General Schemetteau con sua lettera de’ 18 Febbraio del mille settecento ventidue: Il suo idrolibra fu la maraviglia di tutta la Germania; et ancora è stato mandato in Inghilterra dal Milord Forbeis Admirante, e fu solennissimamente approvato soggiugendogli che dovea stamparsi in lingua francese tradotto.

L’avea sebben da un anno già sincerato, che si sarebbe ciò fatto col discorso, quante volte averebb’egli spianate alcune poche, e picciole difficoltà fattevi da un inglese ‘Ngegniere, quali sapute, da esse il motivo prendette di recitare in questo luogo istesso li ventinove Giugno del mille settecento vent’uno il secondo suo ragionamento, qual fu, come Noi tutti di maraviglia ripieni con serietade l’udimmo, a favor del suo discorso un’apologia ben fondata, e con dotta maniera ricolme di profonde dottrine, e sostenuta da sottilissimi sperimenti le risposte alle opposizioni dall’ingegniere inglese credute, cagion per la quale vi tenne appresso di se il nostro Agatino il suo primo discorso per farlo poi uscire insieme stampato colle già sciolte obbiezioni, la gran calca però degli affari così pel Tribunale del Real Patrimonio, di cui egli era Architetto, come per le varie importanti incumbenze della deputazione del Regno, e l’immatura lagrimevole sua morte fecer così che non foss’esseguito l’eroico suo profittevol disegno.

L’ultima delle sue dotte spiritose fatighe con istraordinario talento, a sapere qui fra Noi recitare, quella fu dessa per la qual fece a Noi chiaramente palese e colla teorica, e colla pratica tirando seco l’ammirazione di tutti que’, che concorsero per ascoltarlo il ventesimo nono giorno di Aprile del mille settecento ventidue, come le regole dell’Architettura le medesim’elle sieno che quelle della Musica.

lo voglio sodamente credere, che le accennate sue opere fin qui sarebbono state fuor d’ogni dubbio valevoli ad arrecargli tutto il decoro, e la compiuta estimazione, ma egli ancora, per così dirla, non sazio di appalesare al mondo il forte coraggioso valor del suo ingegno, di cui pienamente l’avea dotato il Signore a tutta possa intraprese di riedificare il Ponte di Termine, per lui renduto già piucchè celebre, e totalmente sicuro di nuove ruine, tuttochè dal suo principio fin a quest’ultima riedificazione per quanto egli avea dalle storie raccolto, si era ben cinque volte disfatto, onde con espertezza sì grande, e con arte così maravigliosa lo rendette frallo spazi’ormai non compiuto di settanta tre giorni a quella perfezione, che appena per la sua grandezza immaginar ci possiamo, sicché per la brevitate del tempo, per la sodezza della fabbrica, e sovr’ognialtro per la ‘ngegnosissima architettura, è adesso riputato, e lo sarà per sempre stupore da’ matematici più subblimi, e de’ più sagaci architetti.

Checché ne dicano, od abbian potuto dirne gli invidi detrattori della sua fama, e van’impugnatori della sua gloria, ben’allor si comprese ch’egli era così perito, che dopo lui la Sicilia starà parecchi secoli ad averne un altro non che superiore, ma eguale; cosa non solamente da ogniun confessata, ma anche, non per acquisto di quella gloria, che vana, e gonfia si appella, par che fosse stata da lui medesimo per impulso di verità conosciuta allor che fabbricato il Ponte di cui si è poc’anzi parlato, e ridotto già da cinque in uno solo, e grandissimo arco di cento vent’un palmo in diametro, proruppe in questa, nell’apparenza troppo ardita proposizione, che talmente stava sicuro di quell’edifizio, che se veniva qualsisia orribile spaventevol diluvio, si sarebbe creduto salvo, se il tempo avesse lui conceduto di poter mettere il piede souvr’al Ponte; ed allora in verun’altra maniera naufragato sarebbesi, che per la sovrabbondanza dell’acqua, non sapendo in verun conto immaginarsi di poter cedere la fabbrica: indubitata certamente cagione per la qual sovra d’esso una scolpita immagine d’un Uomo, che dorme col motto sƐcura quies vi ripose.

Tutto ciò senza ch’io mi creda punto di fallarm’il pensiero, me l’immagino per aver’egli voluto fare un elogio alla Scienza Matematica, ed un altro a se stesso mostrando di avervi saputo perfettamente adoperare i precetti più saldi, e le regole irrefragabili dell’arte; siccome per l’appunto Archimede volendo spiegar la forza della Matematica, e ch’egli al maggior grado possedendola maneggiar la sapea non durò pena alcuna per dire, s’io avessi luogo fuor del mondo per collocarvi un’istrumento, mi prometterei di muovere l’intero globbo terraqueo.

Ma troppo in verità lunga, e meno aggradevole riuscirebbe questa mia Orazione, se volessi qui far memoria di tutte quelle oper prodigiose, per le quali accquistossi al più eminente segno ed il concetto, e la stima, ed in ispezialità nelle più ardue imprese, e nelle difficultà quas’insuperabili; eppur egli era tale per la robbustezza dello spirito, del quale il sommo artefice dio l’avea compiutamente arricchito, che se mi fusse lecito lo riflettere, direi, che l’ingegno con cui’n tutto arrivava, e lo spirito così chiaro, e così grande, che ad un tratto comprendeva ogni forza, e così comprendeva, che niuna impresa per lui riusciva impossibile, e molto meno difficile, venivan’ambi simboleggiati colla robustezza del corpo.

Non erav’insomma operazione tuttocchè da altri per insuperabile riputata, ch’egli non la riusciva, o di riuscirla non si promettea. Una delle quali che in acconcio qui cade di puramente additare, è quella che con magnanimo vigoroso impegno in Piazza una delle più antiche città della nostra Sicilia trasportar voleva per vent’otto palmi da un luogo all’altro con le fondamenta insieme un’intiero antichissimo campanile fabbricato fin dal tempo de’ Goti di vent’otto palmi di quadro, e per quanto s’innalza da terra di ottantacinque palmi altezza.

Averebbe di vero arrecato sospetto di millantatore, se molti non avesse avvedutamente sgannato e coll’obbligarsi alle spese che sarebbon forse accadute se dell’opera non compievasi il fine, e non avesse ad alcuni intendenti della matematica dato in iscritto il modo con cui la proposta operazione eseguir si dovea, che venne comunemente acclamato, e per infallibile riputato dall’eccellente matematico tedesco il Baron di Schemmettau: eppure d’altro più ammirabile dava a Noi la speranza di godere, qual’era la grande incominciata impresa del Moto perpetuo rappresentandogliene ben’agevole il modo la facilità con cui esattamente, in occasione della fabbrica del Ponte, fece la coclea d’Archimede per disseccare quel fiume.

Or tutte queste sue opere, e tutte queste sue idee così nobili, così eroiche, così meravigliose, mi fanno certamente ragione di riflettere alla gran perdita, che abbiamo avuta, e allo giusto lagrimevol rammarico, che aver dobbiamo della sua morte; oltrechè udendo celebrar la fama degli Uomini insigni de’ Paesi stranieri, più da Noi non si potrà, come dir si poteva, sol ci basta la gloria di avere il nostro Daidone; ne men potrallo pronunziare l’Arcadico, e maggiormente di essa la nostra Colonia oretea della qual’ei fu uno de’ fondatori col pastoral nome di Tebalio.

Ma grazie al Cielo, che se non in tutto almeno in parte resta di perdita deplorabile mitigata ladoglia, se andatosen’egli il giorno de’ dieci del messe Gennaio di quest’anno corrente alla vera celeste Patria ove riposano dopo faticoso pellegrinaggio nel Mondo gli Uomini così illustri qual riempie colà di sempiterno glorioso lume Iddio vera perenne fonte, ed origine delle scienze, lasciò a Noi le sue opere cotanto egregie od incominciate, o perfette, sicché servirà di nostra gloria al cospetto di tutt’europa, e al confronto dei più celebri astronomi, Geometri, Architetti, e per dirla in brieve de Matematici tutti il poter francamente dire sennon abbiamo Daidone, abbiamo le prodigiose opere di Agatino Daidone, che è quello, che basta pur che la Genial nostr’Accademia, pur che l’intera Sicilia, e permettete che ‘l dica, pur che l’europa interamente riluca; ed ecco già ‘l termine fin dove giugner brevemente ho potuto, e quel molto che resta o per mia dimenticanza, o ch’io non ho voluto qui porre perché non avrei saputo spiegarlo, o perché non ho potuto convinto dall’estremo rammarico, lascio che si rammenti da Voi fidi compagni al duolo amorevoli virtuosi Accademici».

Bibliografia e sitografia

P. G. da Mezzojuso, C. Scarfò, F. Leto e Grimaldi, “Ode funebre per le esequie da celebrarsi dagli Accademici Geniali di Palermo, de quali tiene degnamente la presidenza il can. d. sig. Don Antonino Mongitore, in morte del sig. d. Agatino Daidone Calascibettano, gran matematico, ingegnere di detta città di Palermo, ms. del XVIII secolo”, BCPa, 2Qq B 53, ff. 126r-127v, 150r-v, ff. s.n. Giovanna Curcio, Marco Rosario Nobile, Aurora Scotti Tosini, “I libri e l’ingegno studi sulla biblioteca dell’architetto (XV-XX secolo)” Edizioni Caracol, 2009.

Domenica Sutera, Il breve ristretto delli cinque ordini dell’architettura… di Agatino Daidone (1714): Struttura, Fonti, Modelli, Obiettivi. Pag. 89 in “I libri e l’ingegno studi sulla biblioteca dell’architetto (XV-XX secolo)”.

G. Giardina, Orazione in morte del nostro Accademico Agatino Daidone recitata [presso l’Accademia dei Geniali] li 4 giugno 1724, ms. del XVIII secolo, Biblioteca Comunale di Palermo (BCPa), Qq E 34, ff. 53-55.

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Giuseppe Longo, 2010 -Il ponte di San Leonardo una delle meraviglie siciliane”- Sicilia Tempo anno XLVIII n.472 luglio, 14-17.

Giuseppe Longo 2011, “Il genio eclettico di Agatino Daidone”, MadonieLive, 17 giugno.

Giuseppe Longo, 2011, “Il ponte San Leonardo”, MadonieLive, 19 Giugno

Andrea Gaeta Biblioteca Comunale di Palermo – Manoscritto Qq E 34, f. 52, in “Gli Atomi – Collana in PDF di Tecnica e Cultura – 39. Daidone News 1 Quinta serie di idraulica romana”, Roma, 2013.

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Giuseppe Longo

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